mercoledì 31 marzo 2010

"E' stato solo un bacio"

La mia amica Hermione è la portatrice e custode di una storia che mi dà (ci dà) speranza.
Ha bei capelli, Hermione, di quelli lisci e sempre in ordine, di quelli che se la incontri in giro ti chiedi se si alza la mattina già con la pettinatura perfetta, tanto per intenderci. Mani esili, unghie corte, curate.
L’ho conosciuta un pomeriggio di fine marzo di circa 7 anni fa, innamorandomi immediatamente di lei come ci si può innamorare di una confidente così sincera da fare male, così razionale, ma sentimentale, che sai avrà una risposta, sì, ce l’avrà, ogni volta che ne avrai bisogno.
I bagni di razionalità, li chiamo, quelli che le chiedo quando ho un assillante psicodramma. I bagni di razionalità, li chiamo, i suoi consigli duri e tangibili ed espliciti che lei mi dà senza troppo pensare alla forma o al peso delle parole.
Metti una sera d’estate. Di quelle calde e afose, in cui preghi, speri, anche il Dio in cui non credi, che arrivi un filo di vento, una brezza dentro e fuori di te che cambi qualcosa. Il tuo sudore e la tua vita.
Metti una sera d’estate e una ragazza che lavora in una nota città, in un noto luogo d’arte e in una nota manifestazione estiva.
Ha finito il primo anno di università, Hermione, ed è una che ha la stoffa. Scrive quaderni ordinati e precisi, fa righe dritte anche senza righello sui libri fotocopiati. Si vede che è una che ne sa, perché mastica di politica e di musica giusta, di arte e letteratura e la prima volta che vado a casa sua rimango incantata dalla gigantesca libreria che ha in salotto, divisa per autore. E io che li ho in pila accanto al letto, uno sopra l’altro, tutti con le orecchie, e pieni di righe di sottolineatura. Ma non è questo il punto.
Quella sera d’estate Hermione si innamora. O mette un mattoncino per terra per quella casetta che si chiama Amore che che uno costruisce (a meno che non siate me) piano piano dal principio. Lui si chiama F. Ed è fidanzato. “La stronza” direte voi. No, lo stronzo è lui fidanzato, dico io. Che poi scusate, io per un attimo metto via il cinismo e faccio la sentimentale: se è per l’amore vero ci può anche stare. E il loro è amore vero, non ce ne sono di palle. Immagino la scena anche se lei non me l’ha mai raccontata. “La lascio” le dice lui, una sera dopo aver fatto l’amore nella casa in montagna di lei dove in teoria lei era con le amiche, per i suoi genitori. E lei pensa “Dio Grazie, questo incubo finisce” e invece dalla bocca le esce “non ti voglio forzare, prendi il tempo che ti serve. Se ti serve tempo”. F. la lascia, la fidanzata, che diventa L’altra da un secondo all’altro. E Hermione, da Altra, diventa la fidanzata.
Inutile dirvi che l’ansia da perdita della sottoscritta, patologia ampiamente trattata nel post precedente, si trasforma in una sfiducia generale nel prossimo, ché, se ti fidi, mica hai l’ansia di essere abbandonata in autostrada per la cassiera dell’autogrill, o perché lui nel parcheggio incontra un furgoncino Wolksvagen pieno di hippy strafatti e capisce che non ha vissuto l’adolescenza e quel senso di libertà deve assolutamente viverlo adesso. Deve, deve.
Insomma se per lei da quel momento inizia il sogno, per me sarebbe iniziato l’incubo. Perché ovvio che quando hai qualcuno lo puoi perdere, mentre se tu sei l’altra, lui non tradisce mica te. Eccheccazzo.
E poi metti che passano gli anni, e l’amore cresce, come solo può crescere un amore vero. E tuoi spigoli si incastrano con i suoi, i suoi silenzi non sono preoccupanti perché li conosci così bene da sentirne la voce. Prendono le misure uno sull’altro.
Ma poi una sera. Una sera Hermione lo chiama e lui non risponde. È in ritardo nell’andare a prenderla. Chiama ancora. Niente. Ci riprova e lui mette giù, e quando ci riprova di nuovo lui risponde e invece della sua voce ci sono delle grida, e le grida sono ingiustificate e urlano qualcosa come “STO ARRIVANDO! E CHE CAZZO, ARRIVO!”.
E lei sta in silenzio.
E pensa: No, non è vero. No, non è vero. Non sta succedendo a noi.
Quando lui arriva sotto casa di lei, un condominio di periferia con una grande parcheggio davanti, anziché suonare il campanello come fa sempre, la chiama e le dice Scendiunattimoperfavore.
E lei prende un pacchetto di fazzoletti di carta e le chiavi di casa, nient’altro.
Mentre scende le scale si dice No, non è vero. No, non è vero. Non sta succedendo a noi.
Prende un pacchetto di fazzoletti di carta perché sa ci sarà da piangere. Lo sa e basta.
Lui vomita tutto, come se fosse saturo delle bugie.
“È stato solo un bacio”, le dice. Ma lei piange. Lo riempie di parolacce. Lo riempie di parolacce mentre piange.
“È tutto sporco, lo capisci?”, gli fa eco lei, che magari pensa anche “non cambierà mai, non cambierà mai”.
E invece. E invece la tempesta precede la calma. Perché il loro amore è forte, perché essere umani significa anche sbagliare e tradire, perché essere innamorati significa anche comprendere la debolezza di un momento, ma non dimenticare quel mattoncino che avevi messo una sera d’estate, oramai sommerso da altri mille mattoncini che sono stati posati da quattro mani anziché da due.
Si riprendono per mano e ricominciano piano.
Da passeggiate con un gelato.
Da un concerto insieme.
Dal chiedersi cosa abbiamo in mano, cosa abbiamo perso, cosa abbiamo ancora da afferrare.
Hermione e F. quest’anno a dicembre hanno fatto il loro primo albero di Natale insieme. La casa è di lui, convivono 3 giorni a settimana. Lei al telefono, tempo fa, mi ha detto che ancora di trasferirsi definitivamente non se ne parla, perché ancora sente il bisogno di spazi suoi, lei, e convivere non è mica facile come nei film.
Io li guardo, o li immagino, e capisco che probabilmente loro sono quelli più felici. O quantomeno forti, o forse consapevoli. Perché hanno passato sulla loro pelle la crisi, il dubbio, la paura; perché sono stati a un passo dal perdersi ma si sono afferrati e non perché dovevano ma perché hanno scelto così.
E allora cosa è l’amore se non questo? Scegliersi.
E ognuno ha la propria definizione.
Per me l’amore è scavalcare un muretto, uno di quelli un po’ vecchi, con le pietre a vista, e poi girarsi indietro, tendere una mano a chi è lì che ti guarda, e guardarlo a tua volta, fisso da vederci dentro fino alla fine se una fine c’è, e con quello sguardo dire “vieni con me a vedere cosa c’è la fuori”.

E io? Io con chi vedrò cosa c’è là fuori?

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